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Quanti hanno un po’ di anni alle spalle si ricorderanno che uno degli “eventi” più significativi che aveva luogo in famiglia era l’arrivo degli ospiti: parenti lontani, amici che si spostavano per ragioni di lavoro, di salute o per diversi altri motivi, c’era la mobilitazione generale.
Per quanti cresciuti in famiglie di credenti, poi, l’andirivieni di pastori, fratelli o famiglie intere di fedeli che passavano o erano invitati nella comunità locale, era un momento di grande benedizione: si godeva di particolare comunione fraterna nell’ascoltare le rispettive esperienze vissute nel Signore o nel condividere qualche testimonianza che dava gloria a Dio per i Suoi interventi in favore di qualche membro della famiglia o della comunità di provenienza. Sante conversazioni che allietavano quei momenti così importanti e benedetti. C’era una sorta di eccitazione generale per rendere il più possibile accogliente e piacevole la venuta e la permanenza degli ospiti in arrivo.
Ci rimane difficile, perlomeno per chi vive nelle grandi città, non fare un riferimento a questa espressione di amore fraterno e di generosità cristiana che oggi sembra svanire, fino ad eclissarsi, a causa della frenesia e dei molteplici impegni che attanagliano tutti.
Più che un onore sembra essere diventato un onere ospitare credenti o parenti. Tante, troppe cose da fare: il lavoro, gli straordinari, la moglie/mamma che non c’è, proprio perché le esigenze familiari lo impongono, e innumerevoli altre necessità di casa rendono la stessa un’area off limit, una sorta di fortino inespugnabile, una riserva privatissima e impenetrabile. Ma chi scrive non dimenticherà
mai la semplice e amorevole ospitalità ricevuta durante i primi anni di conversione, quando, lasciando la propria famiglia di origine per ragioni di lavoro fu ospitato da una famiglia di credenti, oppure durante il periodo del servizio militare. Lontano dalla propria città, in una chiesa “sconosciuta”, con i problemi della caserma, ma accolto, con discrezione, forse da pochi ma cordiali credenti che ti si avvicinavano per mostrare interesse e tenerezza fraterna, vicinanza affettiva per poi invitarti a casa e offrirti un piatto di spaghetti e, a coronare la serata, la lettura di un Salmo ed una bella preghiera! Ed allora la famiglia c’era, era quella dei credenti, quella di quei genitori che ti volevano far conoscere i propri figli per raccontare loro e sentire da loro quello che il Signore aveva e stava facendo nelle rispettive vite. Non avevano fretta di accendere la TV o di scaricarti perché avevano altro da fare: quello era il momento dell’ospitalità, dello stare insieme, del parlare delle cose del Signore e gli argomenti erano sani, edificanti, d’incoraggiamento. Da studente IBI, essere ospitati, visitare le famiglie durante “le uscite” di fine settimana, o a pranzo la domenica, significava fare tesoro di esperienze e testimonianze altrui che avrebbero arricchito e segnato la propria
vita nel Signore. Nei primi anni ottanta, invece, mi capitò di fare visita - con un altro fratello - ad una famiglia di credenti a Craiova, in Romania; per loro (ed anche per noi) era un grosso problema incontrarci, perché era vietato per legge vedere degli occidentali, tantomeno dei credenti, ma in modo rocambolesco e guidato dal Signore riuscimmo a raggiungere la famiglia che ci avrebbe occultamente ospitato. Dopo aver ricevuto notizia del nostro arrivo da un fratello ungherese, preventivamente informato da noi, arrivammo verso sera, di nascosto, per mangiare un boccone e riposarci un po’ per poi partire molto presto la mattina dopo alla volta della Bulgaria. Quella famiglia rischiava il carcere e la perdita del proprio, già misero, lavoro.
Era sera tarda, ma ci aspettavano, sapevano che prima o poi saremmo arrivati e nessuno aveva toccato nulla di quel frugale pasto già pronto in tavola, apparecchiata con tovaglie candide, forse mai usate… sapemmo soltanto in seguito, da un altro fratello straniero anch’egli ospite in quella casa, che il pollo (la cena) offertoci con tanto amore da quei credenti era costato, a turno per ogni membro della famiglia, due giorni e una notte di fila davanti ad una macelleria prima di poterlo acquistare per i fratelli che venivano dall’Italia.
Una cena indimenticabile! E che dire del fratello Pavel di Sofia che ha scaricato un vagone ferroviario di sacchi di cemento per pagarci il prezzo di un pranzo (inutile dirgli che i ricchi occidentali eravamo noi!), o delle vedove di Belgrado e di Sarajevo che facevano dell’ospitalità la loro punta di diamante spirituale (cfr, 1 Tim. 5:9, 10). A Kuwait City, invece, le scarpe fuori della porta erano un segnale convenzionale per dirci se si poteva entrare o no in casa del fratello che a turno ospitava dei credenti per delle riunioni di preghiera clandestina: un bugigattolo assolutamente inospitale, ma all’interno del quale si gustava la presenza del Signore come nel Tempio di Salomone. In Kuwait si rischiava l’impiccagione, ma l’ospitalità era sacra.
A Leskovac, Serbia del Sud, dopo un culto di ore e dal volume sonoro incredibilmente alto, non si poteva proseguire il viaggio prima di essere ospitati a pranzo dal fratello pastore zigano locale per poi fermarsi ancora al culto serale e quindi dormire sul posto prima di proseguire l’indomani: non c’era fretta, si stava insieme ai credenti ed ogni attimo era prezioso, vissuto intensamente nel Signore. La stessa cosa avveniva a Spalato o a Skopje, a Tìrana come a Kiev, a Peç nel Kosovo, come a Minas Gerais in Brasile, ma anche negli USA o al confine russo nelle case di credenti, poveri contadini piegati e piagati dalla vita, con le mani vissute ed il cuore grande come quelle terre… per tutti costoro e tanti, innumerevoli altri credenti, l’ospitalità non era soltanto un ordine divino, ma la più autentica espressione di un amore veramente cristiano. G.B.

da: Il Consigliere della Scuola Domenicale 09

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